martedì 27 marzo 2012

Sull'intervista che abbiamo visto insieme!!!


Dal ricordo individuale alla memoria collettiva. Riflessioni per una “fabbrica della memoria”[i]
Francesco Paolo Romeo



Abstracts
Nella primavera del 1998, un incidente fatale avvenuto all'interno della più grande fabbrica siderurgica dell’area jonica, scosse la vita di un’intera famiglia e di alcuni operai che quel giorno si trovavano a lavorare in quel reparto. Tra loro, c’era anche l’autore di questo scritto che oggi, dopo quasi dodici anni ed essendo nel tempo divenuto formatore, sente la necessità di riflettere sulle possibili soluzioni culturali, pertanto non solo tecnico-operative, degli infortuni sui luoghi di lavoro. La riflessione nasce dall’incontro con Giovanni, il maestro ed operaio specializzato, al quale era stata affidata la sua formazione di tubista industriale all’epoca del racconto. Attraverso una sentita intervista, entrambi si rendono conto che il ricordo di pochi uomini, il loro, nel tempo si era dissolto nell'organizzazione, sottraendosi ad un suo possibile sedimento nella memoria collettiva. Chi scrive è convinto che, in tema di formazione in merito alla sicurezza sul lavoro, la riflessione compiuta sui ricordi personali e la loro successiva capitalizzazione nel "deposito della memoria collettiva organizzativa" sia di fondamentale importanza. Accanto alle politiche di formazione tecnica per la gestione degli impianti e alle procedure legate all'utilizzo dei dispositivi di sicurezza, la speranza è che anche attraverso il ricordo degli infortuni dannosi, la loro commemorazione e la successiva capitalizzazione nelle coscienze di tutti gli operatori dell'organizzazione, si possa concorrere a prevenire gli incidenti e diminuire il peso sociale di questa problematica, che necessita di interventi che debbono necessariamente svolgersi su più piani.
Parole chiave: ricordo personale; memoria collettiva; sicurezza, igiene e salute sui posti di lavoro; cultura organizzativa; learning organization.

Abstracts

In the spring of 1998, a fatal accident occurred inside the largest steel factory in the ionic area (Taranto), shook the life of a whole family and of some workmen who were working that day in that division. Among them, there was also the author of this paper who, after twelve years become a trainer, he has felt the need to reflect on cultural solutions, thus not only technical-operational, related to accidents at work. This reflective activity comes from the encounter with Giovanni, the master and skilled worker, who had been entrusted to his training as industrial tubist at the time of the story. Through an heartfelt interview, they realize that their memories, have been disbanded, during the time by the organization, escaping from a possible sediment in the collective memory. I think that, in theme of "training on safety at work", the thinking carried on biographic memories and their subsequent capitalization in the "filing of the collective organizational memory" is fundamental. Besides technical training policies for the management of facilities and procedures related to the use of safety devices, i think that it could be useful to consider the remembrance of injuries harmful, their commemoration and the subsequent capitalization in the consciences of all operators' organization in order both to prevent accidents and reduce the social burden of this problem, which necessarily need to be considered  on several levels.
  
Keywords: individual memory, collective memory, security, hygiene and health in the workplace, organizational culture, learning organization.



1. I ricordi intrappolati in una "bolla"

“Forza Francesco, passami gli attrezzi di lavoro; velocemente che la temperatura aumenta!”.
Io ed il Sig. Romano, Giovanni per tutti gli amici del reparto e per i colleghi degli altri impianti, quel tiepido giorno di maggio ci trovavamo al Treno Nastri 2, l'impianto della fabbrica in cui le bramme d'acciaio vengono trasportate su degli appositi rulli fino a raggiungere i reparti di finitura. L’impianto, in quel giorno e per gli altri successivi, era in fermata per una manutenzione programmata; manutenzione che noi tubisti industriali eravamo ordinariamente chiamati ad effettuare. Nonostante l’impianto fosse fermo da alcuni giorni, la temperatura attorno a noi, cioè quella che si sprigionava dalle gabbie di laminazione, era ancora parecchio elevata. Calore, umidità, pulviscolo metallico, odore di morchie e grasso, era tutto ciò che vividamente connotava quelle giornate di lavoro. Come ormai accadeva da qualche tempo, io, novizio di appena vent’anni, ero stato affiancato, ma sarebbe stato meglio dire affidato, a Giovanni, l'esperto tubista del reparto. Giovanni aveva una vocazione particolare per noi ragazzi assunti per la prima volta in quella fabbrica alla fine degli anni novanta. Per alcuni operai, uomini duri e coraggiosi capi tribù dei loro produttivi reparti, noi ragazzi rappresentavamo più che altro una nuova "gatta da pelare". Infatti, noi giovani eravamo un possibile pericolo per il loro futuro di lavoratori. Era buffo, ma si sentivano attaccati come capi tribù, dal nostro acne e dal nostro scimpanzoide modo di utilizzare gli strumenti di lavoro. Così, spesso, il senso di minaccia era dimostrato giornalmente nelle dure pratiche di lavoro in cui venivamo occupati. Io ero stato fortunato ad incontrare Giovanni; lui si preoccupava della mia sicurezza, prima di tutto, poi, anche dell’insegnamento del lavoro di tubista industriale. Come giovane tubista, mi occupavo della costruzione e manutenzione degli impianti di lubrificazione sparsi un po’ ovunque nella fabbrica. Difatti, i rulli, le macchine pneumatiche, i forni e i vari meccanismi presenti nei reparti avevano bisogno di un sistema idraulico funzionante a grasso, in grado di lubrificare, per un tempo maggiore, tutte le parti esposte alle temperature elevate. Ero stato assunto con la mansione di tubista industriale e tecnico della lubrificazione, ma per tutti sugli impianti la nostra piccola tribù era la squadra degli “ingrassini”. Ingrassando ingrassando, io e Giovanni in quegli anni avemmo l'opportunità di girare gran parte degli impianti della fabbrica, estesa su una superficie molto più grande del capoluogo jonico. Nonostante la durezza del lavoro e l'immersione nelle innumerevoli preoccupazioni di un’età ancora acerba, con Giovanni ero sereno, apprendevo lentamente ma impegnandomi come non mi era mai capitato fino ad allora: quello era il mio primo lavoro, ed ero soddisfatto di me quando intravedevo mio padre, anch'egli operaio in quella fabbrica, intento nello spiarmi mentre lavoravamo sugli impianti. Un giorno, però, quella serenità che avvolgeva come una coperta calda e colorata la nostra vita di ingrassini, si sporcò all’improvviso di grasso. Quel giorno maledetto io e Luca, un altro giovane collega giunto sul reparto assieme a noi, aspettavamo le direttive di Giovanni sul da farsi.
“Passami le chiavi...i raccordi...il teflon!“; ed intanto io e Luca pensavamo alla sera, alle nostre amicizie e alla possibilità di fare presto insieme una gita in moto. Mentre parlavamo, questa volta anche assieme a Giovanni che intanto aveva terminato il suo lavoro alla macchina da manutenere, udimmo uno scoppio terribile e delle grida, poi vedemmo delle fiamme che si diffondevano veloci fin sotto il capannone del reparto. In una parte sotterranea dell’impianto, c’era un giovane operaio di una ditta appaltatrice che nell'allentare il bocchettone di un tubo flessibile ormai vecchio, aveva preferito, come spesso accadeva, riscaldarlo con una fiamma ossidrica in modo da facilitare l'operazione. In quel tubo flessibile, purtroppo, c’era ancora dell’olio in pressione che, a contatto con il calore della fiamma, fuoriuscì dal bocchettone, si infiammò ed investì il giovane operaio. Il tubo flessibile non era stato bonificato completamente, e Domenico, un giovane operaio ventisettenne, non tornò più dai suoi familiari. Era il 12 maggio 1998. Dopo l'incidente, io, Luca e Giovanni rimanemmo riversi a terra a piangere per molti, molti, interminabili minuti. In seguito arrivò un capoturno a dirci di rialzarci e di riprendere gli attrezzi in mano per continuare il lavoro, ma noi non reagivamo, eravamo ancora a terra... in preda allo shock. Arrivò anche l’ambulanza, ma era già troppo tardi.
Sono passati quasi dodici anni dalla morte di Domenico; dodici anni in cui l’oblio, il silenzio e gli infortuni mortali nella fabbrica si sono succeduti nell’assuefazione totale di una città e dei suoi operai che sembra credano statisticamente ammissibile un tributo del genere pur di tenere lontani gli spettri della disoccupazione. Anch’io, in un certo senso, sono stato in silenzio; un silenzio però che nascondeva il bisogno di elaborare un lutto e, forse, il senso di colpa per non aver potuto far nulla in quei tragici momenti. In fondo, sarebbe bastato distoglierlo dal suo lavoro con una chiacchierata, come quelle che spesso, anzi spessissimo, rallegravano gli operai al lavoro sugli impianti. Spessissimo, ma non quella volta; e noi compagni di lavoro siamo rimasti in silenzio per tutti questi anni.
Qualche mese fa, mentre ero in compagnia dei miei nuovi colleghi di lavoro, i pedagogisti del Dipartimento di Scienze Pedagogiche dell'Università del Salento, ricevetti una preoccupata telefonata da mia madre, la quale mi informava di un incidente che aveva interessato mio zio Pasquale nella stessa fabbrica. Purtroppo, mentre mio zio era intento a spegnere un principio di incendio generatosi all’interno di un quadro elettrico, l’estintore, che pure era stato revisionato da poco tempo, non aveva funzionato bene e nell’erogare le polveri di anidride carbonica aveva violentemente scagliato sul viso la sua parte terminale tagliandoli gran parte del labbro superiore. Cinquanta punti, tanti ne servirono per suturare tutti gli strati del tessuto del labbro, e un ricovero d’urgenza all’ospedale per un intervento di chirurgia plastica furono il risultato di questo ennesimo incidente avvenuto sul posto di lavoro. Pur mostrando un pregevole senso del dovere per la prevenzione di un incendio di più grande entità, per una sorta di paradosso sulle norme di sicurezza, l’incidente era avvenuto proprio a causa di un dispositivo di sicurezza mal funzionante. Anche dopo questo incidente, l’oblio.
Oggi sono un formatore e, come spesso il professore Colazzo afferma, essendo formatori abbiamo il dovere di riflettere sulla formazione e sui processi che la riguardano. Un dovere perché è a partire dalle nostre osservazioni, riflessioni, scelte, attività che possono essere analizzati i bisogni formativi, ma anche risolti problemi importanti. Ad esempio, riferendoci alla normativa sul delicato tema della "Sicurezza, igiene e salute sui posti di lavoro", molti contributi potrebbero essere ancora offerti soprattutto da settori disciplinari in cui le tematiche tecniche vengono trattate non in modo diretto. Questa legge, evidentemente, tende a realizzare un'organizzazione sicura, priva di rischi, salubre da un punto di vista ambientale e, aggiungiamo noi pedagogisti, attenta ai processi formativi, intercettando in tal senso le nozioni a noi care di atmosfera e benessere organizzativo.
La Direttiva-quadro 89/391/CEE del Consiglio delle Comunità Europee, del 12 giugno 1989, si prefiggeva l'obiettivo di assicurare una migliore protezione dei lavoratori sui posti di lavoro, tramite provvedimenti di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali sul lavoro, nonché grazie all’informazione, alla consultazione, alla partecipazione equilibrata e alla formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti. Nello specifico dell'infortunistica, il datore di lavoro è obbligato a informare i lavoratori, redigere un elenco e fornire delle relazioni sugli infortuni sul lavoro, consultarli e permettere la loro partecipazione nel quadro di tutte le questioni attinenti alla sicurezza e alla sanità sul luogo di lavoro e, infine, assicurare che ogni lavoratore riceva una sufficiente e adeguata informazione in ordine alla sicurezza e alla salute durante l'orario di lavoro. La scrittura delle relazioni sugli infortuni avvenuti nelle organizzazioni e la loro successiva divulgazione, accompagnata da un'adeguata riflessione pedagogica, secondo il mio punto di vista, risulterebbe di immensa utilità per il tema della sicurezza lavorativa. Nella realtà di tutti i giorni, invece, gran parte delle descrizioni degli incidenti che accadono nelle organizzazioni e i ragguagli sulla loro possibile prevenzione, vengono lasciati in secondo piano rispetto agli obiettivi produttivi. Così, le narrazioni legate ai tanti inconvenienti lavorativi che accadono nei reparti e tra i banchi delle officine, si disperdono lasciando tutt'al più il posto alla traccia di un loro flebile ricordo. È possibile, dunque, che esistano delle differenze tra ricordo personale e memoria collettiva? Differenze che sono prima di tutto legate ai processi di costruzione sociale di una memoria più largamente condivisa? E soprattutto, se esistono tali differenze, queste possono farsi dispositivo pedagogico nella lotta agli infortuni sul lavoro? Proprio per cercare di rispondere a questi interrogativi, decisi di intervistare i protagonisti degli incidenti avvenuti in fabbrica; sia Giovanni che nel 1998 era con me nel momento dell'incidente mortale, sia mio zio Pasquale che da poco tempo si era ristabilito da un brutto infortunio.
Dopo l'assemblaggio delle interviste, e dopo averle guardate e analizzate più volte, mi sono reso conto che nel racconto di Giovanni e in quello di mio zio Pasquale esistevano alcune considerazioni comuni. Le due narrazioni, chiaramente scaturite da un infortunio sul lavoro, erano caratterizzate infatti dalla riflessione sul gruppo ristretto di lavoro per il primo, e sulla tutela offerta dai colleghi accorsi in aiuto per il secondo. Analizzando l'intervista di Giovanni, cioè in quella fase di analisi della narrazione in cui occorre estrarre le informazioni utili per l'interpretazione dei fatti raccontati (A. Sormano, 1996, p. 353)[ii], si ricorre spesso al ricordo della "nostra squadra di lavoro"; di un gruppo ristretto inteso come un'entità distaccata dal resto del mondo della fabbrica. Nell'intervista, Giovanni ripete più volte il termine "capannella", metafora utilizzata per indicare una sorta di affiatato gruppo di lavoro all'interno del quale i membri vengono costantemente protetti dai pericoli della fabbrica, dalle tensioni che si sviluppano nei reparti, dalle condizioni poco agevoli del lavoro. E come se il ricordo di Giovanni, così lo descrive l'esperto tubista, ci collocasse all'interno di una "bolla comunitaria affettiva" capace di alleviare la durezza delle giornate lavorative e di difenderci in qualche modo dagli eventuali pericoli. Più volte ricorda le nostre giornate di manutenzione come "delle isole di lavoro, di tranquillità e protezione" o come delle "nicchie di serenità". In realtà, le sensazioni evocate da quelle espressioni sono rimaste immutate nel tempo anche per me. Ricordo che in certi reparti di lavoro, dove era molto facile perdersi senza una precisa individuazione di punti d'orientamento, si creava tra noi un clima di sicurezza, di scambio di informazioni, di pareri, di pratiche, di consigli e di affetto. Giovanni era in grado di insegnarci le più difficili tecniche di piegatura del tubo di rame e di proteggerci allo stesso tempo. Questa "capannella" veniva idealmente costruita da noi nei reparti da manutenere, poi, alla fine della giornata di lavoro, ognuno ne portava i pezzi smontati nella propria cassetta degli attrezzi. Allo stesso modo, anche immaginandoci sui reparti all'interno di una metaforica "bolla protettiva", questa, alla fine della giornata, scoppiava per poi essere nuovamente rinnovata l'indomani.
Veniamo ora al racconto di mio zio Pasquale. Anche nel suo caso il ricordo si focalizza sull'intervento dei "compagni di reparto", sul pathos del momento, e su un senso di protezione avvertito nell'ascoltare, ancora frastornato, le voci dei suoi compagni di lavoro accorsi in suo aiuto. Molti di loro, ripete gratificato nell'intervista, l'andranno a trovare in reparto durante il pomeriggio e nei giorni successivi all'intervento di chirurgia plastica. A questo punto, se ci preoccupiamo di indagare pedagogicamente il tema della "memoria collettiva", specialmente riguardo il problema degli infortuni nel contesto industriale, è opportuno cercare di fare emergere, nella rilevazione delle informazioni mediante l'utilizzo delle interviste, gli episodi in cui il ricordo individuale intercetta quello della collettività. Potremmo dire che esiste un momento temporale in cui ciò che individualmente accade, e che determinerà il consolidamento di una successiva traccia mnestica, è condiviso anche con gli altri attori presenti in quella situazione. La memoria collettiva, più che il risultato dell'esperienza dell'individuo, è il risultato dei ricordi generati dalle interazioni di un gruppo in un determinato momento. La memoria collettiva possiede, dunque, dei caratteri di situatezza, di contestualità, di intersoggettività. Tornando al 12 maggio 1998, i miei ricordi hanno certamente trovato un punto di intersecazione temporale e affettiva con quelli dei compagni di lavoro ma, rimanendo bloccati all'interno della "bolla protettiva" tanto cara a me e a Giovanni, col tempo si sono arresi all'evanescenza e all'oblio. Anche per l'esperienza di mio zio Pasquale è accaduto un simile "processo di dissolvenza mnemonica". Il suo ricordo ha intercettato per qualche ora quello dei suoi compagni più stretti, per questo i ricordi apparterranno per sempre all'esperienza di quella piccola comunità ma, se resteranno anch'essi intrappolati nella bolla, alla sua esplosione si dissolveranno sicuramente nel tempo. Occorre, a mio parere, attuare un intervento pedagogico sul ricordo; questo deve consolidarsi, deve sedimentarsi non soltanto in quel gruppo in cui sono avvenute le esperienze ma, possibilmente, in tutta l'organizzazione. Capiremo in seguito nello specifico, quanto sia importante attivare il dispositivo pedagogico della sedimentazione del ricordo nell'organizzazione, nelle politiche sulla sicurezza e prevenzione degli infortuni. 


 
2. Il paradigma della memoria situata

Riflettendo sul costrutto di memoria collettiva, mi sono reso conto delle tante attinenze esistenti con il "paradigma dell'azione situata" (situated action). Questo paradigma, maturato all'interno della psicologia culturale vygotskijana, e dunque contrapposto alla visione del paradigma cognitivista dell'azione e della comunicazione, permette di considerare come il corso di ogni azione dipenda dalle circostanze materiali e sociali in cui ha luogo (C. Zucchermaglio, 2004). Dunque, i processi cognitivi, di comunicazione, di formazione, d’insegnamento, di apprendimento e le pratiche lavorative sono il prodotto delle interazioni che si strutturano in uno specifico tempo e contesto. Questo cambio paradigmatico viene sottolineato dalla nascita del costrutto di "comunità di pratiche", che allontana definitivamente l'idea di una pratica individualista nei gruppi di lavoro. Per Wenger le comunità di pratiche "sono gruppi di persone che condividono un interesse, un insieme di problemi, una passione rispetto a una tematica e che approfondiscono la loro conoscenza ed esperienza in quest'area mediante interazioni continue" (Wenger, MCDermott, Snyder, 2007, p. 44). Nelle comunità di pratica si dà risalto all'importanza dei processi di negoziazione e costruzione dei significati condivisi, per cui le comunità si caratterizzano fondamentalmente per tre dimensioni: un impegno reciproco, un'impresa comune, un repertorio condiviso (Wenger, 1998). La dimensione dell'impegno reciproco, cioè del perché si è in quella situazione insieme, evidenzia come le pratiche di un gruppo non esistano in astratto ma solo se negoziate tra i membri di una comunità. Se non esistesse il comune impegno in un campo tematico specifico, non si parlerebbe di comunità di pratiche ma solo di un gruppo di amici. La dimensione dell'impresa comune, cioè del cosa dobbiamo produrre, sottolinea la presenza degli obiettivi comuni come esito del processo di interazione negoziale che si sviluppa a partire dall'impegno reciproco. Dunque, un campo tematico specifico e condiviso crea un senso di responsabilità per gli individui, l'utilizzo di conoscenze e lo sviluppo di una pratica. La dimensione del repertorio condiviso, cioè del cosa già conosciamo, rimanda inevitabilmente all'insieme di strumenti, idee, rappresentazioni, informazioni, documenti, storie, linguaggi condivisi dai membri della comunità. Potremmo dire che all'interno della dimensione del repertorio condiviso è inevitabilmente inclusa la memoria collettiva di quella specifica comunità di pratica. La memoria collettiva è pertanto l'insieme dei ricordi di eventi che appartengono ad una specifica collettività; ricordi che abbandonando la loro componente egocentrica ne mettono in evidenza una sociale e situata. Ad esempio, memoria collettiva non è il ricordo personale di un brevetto di successo derivante dal lavoro di un unico individuo, bensì la memoria del riconoscimento comunitario all'attività di un collega che ha utilizzato e finalizzato il repertorio di informazioni della comunità per un risultato comune. Ancora, memoria collettiva non è il ricordo personale della promozione a manager di un membro della comunità, bensì la memoria del graduale riconoscimento comunitario di leader carismatico ad un suo membro. Per chi scrive, il paradigma della "memoria situata" (situated memory), in assonanza con gli studi sulla cognizione situata, mette in evidenza il carattere locale, contingente, situato e incrementale delle tracce mnemoniche delle nostre azioni quotidiane. Se da un lato la costruzione sociale della memoria ci suggerisce di considerare i suoi caratteri di specificità e situatezza, dall'altro lato è vincolante l'allontanamento dalle sue componenti nostalgiche ed individuali. L'utilizzazione di queste prescrizioni pedagogiche, affidano alla memoria collettiva le responsabilità di una dimensione prospettica. Il termine "ricordare" nel linguaggio comune viene utilizzato per indicare almeno due diverse prospettive temporali: ricordarsi cosa dobbiamo fare, cioè quali sono i nostri piani per il futuro, o ricordarsi eventi del passato, come ad esempio la faccia di una persona e così via (Papagno, 2003, p. 45). Il ricordarsi del futuro è compito della memoria prospettica e, più che la memoria retrospettiva, e questo tipo di memoria ad avere la prevalenza nella vita di ogni giorno. Quante volte, ad esempio, ci siamo dimenticati di fare una chiamata ad un amico pur avendola programmata da diverso tempo? La memoria prospettica si colloca al confine tra memoria, attenzione ed azione, ed è interessante notare come essa sia determinata più dal contesto sociale di riferimento che da variabili motivazionali. Infatti, le ricerche sugli anziani hanno dimostrato che, pur possedendo una minore capacità attenzionale, essi svolgono meglio dei giovani le loro azioni in condizioni ecologiche protettive, cioè negli ambienti di tutti i giorni, utilizzando più adeguatamente ausili esterni come il segnarsi le cose. Per gli anziani, accade che la riduzione delle risorse cognitive venga bilanciata dallo sviluppo di altre strategie compensatorie, come ad esempio un più esperto utilizzo del bagaglio esperienziale. Per le organizzazioni, credo che valga in generale lo stesso principio: l'età adulta di una comunità di pratiche non introduce limiti al suo ulteriore sviluppo, infatti, possono esserci ancora prospettive nuove e crescita, a patto che l'esperienza organizzativa venga resa capitalizzabile e fruibile per tutti i membri. Il "sapere pedagogico" che si interroga sulle questioni della vita organizzativa deve, inevitabilmente, occuparsi della gestione dei processi della memoria prospettica, affinché l'età adulta di una comunità si orienti verso l'età della saggezza, dunque, dell'intelligenza organizzativa.


3. Fuori dalla "bolla", dentro la vita organizzativa

Abbiamo visto come, analizzando le due interviste sull'esperienza dell'infortunio, i focus narrativi estratti siano rappresentati dal ricorrere all'utilizzo dei termini "capannella", "bolla protettiva", "isola di lavoro" e del termine "compagni di reparto". Ma l'utilizzo di queste metafore, agevolano i processi di stratificazione della memoria collettiva o, al contrario, favoriscono una loro dissolvenza culturale? Spesso, quando rifletto sui processi della memoria, faccio riferimento alla metafora del giacimento d'oro. Quando si incomincia una operazione di scavo, che proprio nel nostro caso è una operazione di scavo psicologico, è difficile incontrare nei primi metri di terra traccia del prezioso metallo. Continuando nell'operazione, verrà alla luce qualche traccia del giacimento aurifero, poi, scendendo ancora più in profondità, queste tracce saranno più consistenti e diventeranno dei nuclei più grandi, e solo dopo aver raggiunto un'adeguata profondità si rinverrà la riserva d'oro sedimentata nei millenni nella terra. Il giacimento del prezioso metallo è nascosto, come un tesoro, nella profondità della terra. Se proviamo ad utilizzare questa metafora anche per la comprensione del costrutto della memoria collettiva, potremmo dire che esistono nella superficie della vita organizzativa delle tracce mnestiche individuali. Analizzando più in profondità gli aspetti latenti della vita di un'organizzazione, è possibile che queste tracce si raccolgano dando origine a ricordi più intensi di esperienze vissute dalla comunità. Se ancora, comprenderò le ragioni per cui quella organizzazione è nata, vive è si proietta nel futuro, è probabile che abbia intercettato, dissotterrandolo, il suo patrimonio più importante, vale a dire la sua memoria collettiva. Questa memoria collettiva è fatta di storie, di maestri e apprendisti, di eroi organizzativi, di pratiche, di simboli, di avvenimenti che sono rimasti impressi nella mente di ognuno poiché ognuno ha partecipato alla loro generazione. Ma pur riguardando il singolo, pur rimanendo gelosamente custoditi nella memoria di ogni individuo, i ricordi appartengono a tutti coloro che si trovavano insieme nel momento in cui quelle esperienze segnano in modo indelebile quella collettività.
Memoria collettiva è prevenire gli infortuni attraverso le riflessioni scaturite dalle narrazioni delle vittime degli stessi; è rendere, attraverso la progettazione di interventi formativi adeguati, cosi come anche attraverso le commemorazioni annuali (penso ad esempio a dei momenti di celebrazione religiosa tra le famiglie delle vittime, i compagni di lavoro e i vertici aziendali), tributo ai tanti lavoratori che sciaguratamente perdono la vita sui posti di lavoro. Per dodici anni, i miei ricordi e quelli di Giovanni sono rimasti intrappolati nella "bolla" che avevamo immaginato, aggrovigliati al legname delle nostre "capannelle", naufragati sulle spiagge delle "isole" più lontane che la nostra creatività avesse potuto immaginare. Così, anche l'attuale infortunio di mio zio Pasquale corre il rischio di divenire, nel tempo, una leggera e superficiale traccia di ricordo senza avere la possibilità di depositarsi, sedimentandosi, in quel prezioso giacimento rappresentato dalla memoria collettiva. Ma come è possibile, specialmente nelle politiche della sicurezza, igiene e salute sul lavoro, favorire la sedimentazione dei ricordi personali nella memoria collettiva? O meglio, per utilizzare un termine comune nel linguaggio degli operatori delle fabbriche, far convogliare tutti i ricordi nelle "tank" della memoria (serbatoi per i liquidi) dell'organizzazione? Può la pedagogia dare il suo energico contributo nella prevenzione degli infortuni sul lavoro e nella lotta contro le "morti bianche" che, come di recente ha ricordato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione dell'incontro con una delegazione dell'Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro, rappresentano ancora una delle ferite sociali del nostro paese?[iii] Credo, innanzitutto, che la circolazione delle informazioni e delle esperienze sia di fondamentale importanza per la vita di una organizzazione. Non solo quelle positive dalle quali è facile aspettarsi un pieno consenso ma, soprattutto, da quelle negative, da quelle che generano errori, dai tentativi e anche dalle circostanze dannose che levano momentaneamente respiro alla vita quotidiana della comunità. Penso a Domenico, a mio zio Pasquale, ai miei infortuni e a quelli dei miei vecchi colleghi, e penso all'importanza che queste esperienze avrebbero potuto avere se solo fossero state utilizzate per un fine comune: per rinvigorire la memoria collettiva e per offrire una possibilità in più nel prevenire in futuro una loro ulteriore comparsa. Se è vero, come hanno insistito Lave e Wenger, che l'apprendimento nelle organizzazioni è una pratica di "partecipazione periferica legittimata" (legitimate peripheral partecipation) (Lave, Wenger, 2006), ai novizi che vengono affiancati agli esperti - gli anziani depositari dei segreti dell'organizzazione - devono essere gradualmente trasmesse non solo le competenze che riguarderanno il loro lavoro, ma anche i valori, i simboli, i linguaggi, le regole, la memoria collettiva. In breve, il patrimonio storico di quell'organizzazione. Gli anziani hanno il compito di strutturare profonde interazioni attorno a quelli che sono i problemi organizzativi da risolvere; in altre parole, devono favorire quell'"intimità di mestiere" essenziale per sviluppare il senso di comunanza utile per la vita dell'organizzazione (Wenger, MCDermott, Snyder, 2007, p. 164). Il sociologo Richard Sennet, riflettendo sull'organizzazione del moderno laboratorio scientifico, afferma che essi sono strutturati secondo il modello della "bottega artigiana", nel senso che sono luoghi di piccole dimensioni, in cui le interazioni faccia a faccia favoriscono, appunto, un'intimità nel lavoro. Inoltre, Sennet osserva come all'interno di situazioni complesse, quali possono essere ad esempio le industrie automobilistiche, oggi si strutturino esperienze lavorative simili a quelle laboratoriali. In questo modo, anche nel ritmo assordante di una catena di montaggio, nascono degli arcipelaghi di spazi intimi e riservati (Sennet, 2009, pp. 59-60). Ma siamo proprio sicuri che questi "arcipelaghi laboratoriali" non includano anche quelle "isole di lavoro, di tranquillità e protezione dal resto degli impianti" che, alla maniera di un meccanismo difensivo, assieme a Giovanni avevamo immaginato per una fuga dalla durezza del lavoro? In altri termini, sono d'accordo con l'importanza di favorire la nascita di comunità di pratiche in cui sia forte il senso di comunanza, ma è altrettanto importante ri-vedere il rapporto tra novizio ed esperto alla luce delle riflessioni fatte sulla relazione che si creava tra maestro-artigiano e apprendista all'interno delle botteghe; una relazione dalla quale dipendeva indubbiamente l'apprendimento e l'assimilazione delle competenze del giovane ma, soprattutto, l'eredità storica di quella comunità e la sua proiezione nel futuro. Oggi, i lavoratori che operano nelle industrie, nelle scuole, negli ospedali, nelle pubbliche amministrazioni sono sempre meno motivati, ma questo calo di interesse non è da imputare al lavoro che svolgono, bensì al modo in cui esso è strutturato. Gerarchie rigide, routine lavorativa, atmosfere organizzative asfissianti, luoghi di lavoro sempre più "liofilizzati" ad una sedia ed una scrivania (nel senso che il lavoro sembra essiccarsi, perdendo la sua linfa vitale), fanno dimenticare l'idea che il lavoro possa essere prima di tutto un laboratorio di creatività ed uno spazio sociale. Ma affinché il lavoro recuperi nuovamente questa "dimensione artigiana", occorre favorire la nascita e la negoziazione di più comunitari simboli e rituali, così come occorre rivalutare il processo di trasmissione e accumulazione delle conoscenze a livello di sapere tacito, che è fatto di abitudini, di gesti sapienti, di indizi, informazioni e ricordi. Ricordi che, emergendo dalla coscienza dell'individuo in direzione di quella comunitaria, favoriscono la formazione di una memoria collettiva e di una successiva pratica organizzativa. Per queste ragioni, nell'attuale scenario lavorativo, globale, post-moderno, rapido, liquido, Sennet ci suggerisce che dovremmo insistere maggiormente affinché gli anziani-esperti recuperino la responsabilità pedagogica del maestro-artigiano, e arrivino a rendere sempre più chiari ed espliciti quei saperi taciti interiorizzati in anni di lavoro.


Conclusioni

Quando mi sono accinto a elaborare queste riflessioni, mi sono reso conto dell'importanza e della difficoltà di comprensione del costrutto di "memoria collettiva", specialmente se questo è analizzato all'interno delle comunità di pratiche, con un particolare riferimento alle politiche della sicurezza sui luoghi di lavoro. Gli interrogativi iniziali hanno trovato in parte risposta con la conferma di una discrepanza esistente tra ricordo individuale e memoria collettiva. Lo snodo concettuale di questo contributo, forse, sta proprio nella comprensione di tale processo attraverso i racconti e le esperienze degli operai della fabbrica; un processo che rende possibile la capitalizzazione delle esperienze personali nella vita e nella memoria di tutti gli operatori dell'organizzazione.
Questo cammino è stato avvincente. Primo, perché ho affrontato il viaggio assieme a Giovanni, compagno di allora e maestro di oggi, e mio zio Pasquale  a cui, al di là del legame di famiglia, sono legato poiché entrambi, diciamo così, condividiamo frammenti della stessa memoria collettiva. Secondo, perché questo esercizio di riflessione e scrittura, assieme alla raccolta e all’analisi delle interviste, ha avuto una funzione terapeutica[iv] per tutti gli attori di questi processi. La malinconia, il disappunto, l'ira, la nostalgia, il rimpianto sono solitamente le emozioni più associabili al lavoro della memoria. E tutte queste emozioni, che sembravano vincolarci ed intrappolarci all'interno di quelle "bolle protettive" ora sembrano volgere verso una dimensione del desiderio. Pertanto, l'emozione legata ai ricordi, qualunque essa sia, può permettersi di diventare progetto a patto che in questo progetto si riescano a condividere gli aspetti più comunitari. La mia scrittura autobiografica, le narrazioni di Giovanni e Pasquale hanno "curato la nostra identità" arricchendola di elementi utili per i progetti di vita e di lavoro che ognuno di noi, singolarmente ma sempre collettivamente, intraprenderà. Giovanni, scavando e ri-scavando con sofferenza nel passato di quei tragici momenti, ha raggiunto la consapevolezza di essersi sempre preoccupato di creare attorno ai suoi giovani operai quella "intimità di mestiere" e quella protezione che caratterizzano le vere comunità di pratiche; ed in questo suo "sforzo artigiano", lo ringrazio per il dono dei segreti che porterò con me nelle botteghe della vita che frequenterò come apprendista. Mio zio Pasquale, dopo essersi rivisto nella registrazione dell'intervista, e dopo aver provato le "emozioni e le riflessioni dello sdoppiamento", che conferiscono una maggiore lucidità affettiva e cognitiva nell'interpretazione degli eventi, ha raggiunto la consapevolezza che la narrazione del suo infortunio potrà essere utile ai novizi che negli anni andranno a lavorare nel suo reparto sotto la sua guida artigiana. Come un tempo facevano gli artigiani di bottega, sarà compito suo trasferire il ricordo di quell'evento ai suoi apprendisti, affinché l'episodio sedimenti nella memoria collettiva della comunità di pratiche e non si incorri più nella stessa problematica. Per quanto mi riguarda, ho vivo dentro di me il ricordo più importante di quella giornata: la "memoria" di Domenico.




Note


[i] Questo articolo, prima di essere una riflessione pedagogica, vuole essere un tributo alla memoria di Domenico Mele, giovane vittima della ancora troppo rischiosa siderurgia italiana.
[ii] Ai fini della nostra riflessione, è interessante notare come Andrea Sormano proponga, tra i modelli di analisi dell'intervista, il "modello estrattivo-informazionale di intervista". Questo modello di analisi dell'intervista, utilizza la metafora dell'intervistatore come "estrattore" che, durante l'analisi deve utilizzare «un agire strategico che gli consenta di giungere, lungo i suoi cunicoli laterali, al centro della miniera: dove risiede l'informazione, la rappresentazione mentale, la "personalità", l'atteggiamento, il sistema di valori o cos'altro ancora ci si aspetta di estrarre con l'intervista». É originale notare come le parole utilizzate dall'autore per descrivere questo modello di analisi basato sul processo estrattivo dell'informazione, presentano forti affinità con la metafora del giacimento d'oro utilizzata in questo contributo per comprendere la differenza esistente tra traccia mnestica e riserva mnemonica collettiva. Cfr. A. Sormano, Modelli sociologici di intervista e modelli linguistici di razionalità dell'attore, in C. Cipolla, A. De Lillo (a cura di), Il sociologo e le sirene. La sfida dei metodi qualitativi, Franco Angeli, Milano, 1996.
[iii] Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il 27/11/2009 a Palazzo del Quirinale, in occasione dell'incontro con l'ANMIL (Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi del Lavoro), ha tenuto un intervento sul tema della sicurezza e del benessere sui luoghi di lavoro. Il Presidente ha sottolineato come la cultura del rendimento a tutti i costi, che evidentemente comprende anche gli alti ed innaccettabili tributi dei sacrifici umani, deve essere assolutamente sconfitta perché è alla base delle "morti bianche". Il sentito intervento del Presidente Giorgio Napolitano, sotto forma di comunicato e di video, è consultabile sul sito ufficiale della Presidenza della Repubblica Italiana. L'intervento video è consultabile all'indirizzo:
[iv] Duccio Demetrio, nel suo libro Raccontarsi. L'autobiografia come cura del sé, fa una similitudine tra la scrittura autobiografica e l'oggetto transizionale. Secondo lo psicanalista inglese Donald Winnicott, ogni qual volta si presenta una situazione di separazione da un affetto o un momento di ansia e di transizione, come ad esempio le fasi di transizione che segnano la crescita di un bambino, occorrono immagini o cose concrete in grado di mitigare le perdite affettive. I giocattoli per i bambini, come pure gli amuleti per gli adulti, svolgono questa funzione di accompagnamento e di mitigazione dell'ansia. Per Demetrio, esiste una differenza sostanziale tra un oggetto transizionale materiale ed un racconto autobiografico. Quest'ultimo, nel mentre viene scritto, dona la possibilità all'autore di rielaborare il percorso della vita rendendolo più ricco di particolari, aiutando ad oltrepassare i momenti difficili con maggiore maturità e conforto. Credo sia possibile estendere questa "funzione terapeutica della narrazione" individuata da Demetrio, anche alle interviste rilasciate da Giovanni Romano e Pasquale Leo sul tema degli infortuni in fabbrica. [Cfr. Duccio Demetrio, Raccontarsi. L'autobiografia come cura del sé, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996, p. 134].


Bibliografia

Cipolla C., De Lillo A., a cura di, (1996). Il sociologo e le sirene. La sfida dei metodi qualitativi, Milano: Franco Angeli.
Lave J., Wenger E., (2006). L'apprendimento situato. Dall'osservazione alla partecipazione attiva nei contesti sociali. Milano: Erickson.
Sennet R., (2009). L'uomo artigiano, Milano: Edizioni Feltrinelli.
Wenger E., MCDermott R., Snyder W.M., (2007). Coltivare comunità di pratica. Prospettive ed esperienze di gestione della conoscenza, Milano: Guerini e associati.
Wenger E., (1998). Communities of practice: Learning, meaning, and identity, Cambridge: Cambridge University Press.
Zucchermaglio C., (2004). Vygoyskij in azienda, Roma: Carocci.