Dal ricordo individuale alla memoria collettiva. Riflessioni
per una “fabbrica della memoria”[i]
Francesco Paolo
Romeo
Abstracts
Nella primavera del
1998, un incidente fatale avvenuto all'interno della più grande fabbrica
siderurgica dell’area jonica, scosse la vita di un’intera famiglia e di alcuni
operai che quel giorno si trovavano a lavorare in quel reparto. Tra loro, c’era
anche l’autore di questo scritto che oggi, dopo quasi dodici anni ed essendo
nel tempo divenuto formatore, sente la necessità di riflettere sulle possibili
soluzioni culturali, pertanto non solo tecnico-operative, degli infortuni sui
luoghi di lavoro. La riflessione nasce dall’incontro con Giovanni, il maestro
ed operaio specializzato, al quale era stata affidata la sua formazione di
tubista industriale all’epoca del racconto. Attraverso una sentita intervista,
entrambi si rendono conto che il ricordo di pochi uomini, il loro, nel tempo si
era dissolto nell'organizzazione, sottraendosi ad un suo possibile sedimento
nella memoria collettiva. Chi scrive è convinto che, in tema di formazione in
merito alla sicurezza sul lavoro, la riflessione compiuta sui ricordi personali
e la loro successiva capitalizzazione nel "deposito della memoria
collettiva organizzativa" sia di fondamentale importanza. Accanto alle
politiche di formazione tecnica per la gestione degli impianti e alle procedure
legate all'utilizzo dei dispositivi di sicurezza, la speranza è che anche
attraverso il ricordo degli infortuni dannosi, la loro commemorazione e la
successiva capitalizzazione nelle coscienze di tutti gli operatori
dell'organizzazione, si possa concorrere a prevenire gli incidenti e diminuire
il peso sociale di questa problematica, che necessita di interventi che debbono
necessariamente svolgersi su più piani.
Parole
chiave: ricordo
personale; memoria collettiva; sicurezza, igiene e salute sui posti di lavoro;
cultura organizzativa; learning organization.
Abstracts
In the spring of 1998, a fatal
accident occurred inside the largest steel factory in the ionic area (Taranto),
shook the life of a whole family and of some workmen who were working that day
in that division. Among them, there was also the author of this paper who,
after twelve years become a trainer, he has felt the need to reflect on
cultural solutions, thus not only technical-operational, related to accidents
at work. This reflective activity comes from the encounter with Giovanni, the
master and skilled worker, who had been entrusted to his training as industrial
tubist at the time of the story. Through an heartfelt interview, they realize
that their memories, have been disbanded, during the time by the organization,
escaping from a possible sediment in the collective memory. I think that, in
theme of "training on safety at work", the thinking carried on
biographic memories and their subsequent capitalization in the "filing of
the collective organizational memory" is fundamental. Besides technical
training policies for the management of facilities and procedures related to
the use of safety devices, i think that it could be useful to consider the
remembrance of injuries harmful, their commemoration and the subsequent
capitalization in the consciences of all operators' organization in order both
to prevent accidents and reduce the social burden of this problem, which
necessarily need to be considered
on several levels.
Keywords: individual memory, collective
memory, security, hygiene and health in the workplace, organizational culture,
learning organization.
1. I ricordi intrappolati in una "bolla"
“Forza Francesco, passami gli attrezzi di lavoro; velocemente che la
temperatura aumenta!”.
Io ed il Sig. Romano, Giovanni per tutti gli amici del reparto e per i
colleghi degli altri impianti, quel tiepido giorno di maggio ci trovavamo al
Treno Nastri 2, l'impianto della fabbrica in cui le bramme d'acciaio vengono
trasportate su degli appositi rulli fino a raggiungere i reparti di finitura.
L’impianto, in quel giorno e per gli altri successivi, era in fermata per una
manutenzione programmata; manutenzione che noi tubisti industriali eravamo
ordinariamente chiamati ad effettuare. Nonostante l’impianto fosse fermo da
alcuni giorni, la temperatura attorno a noi, cioè quella che si sprigionava
dalle gabbie di laminazione, era ancora parecchio elevata. Calore, umidità, pulviscolo
metallico, odore di morchie e grasso, era tutto ciò che vividamente connotava quelle
giornate di lavoro. Come ormai accadeva da qualche tempo, io, novizio di appena
vent’anni, ero stato affiancato, ma sarebbe stato meglio dire affidato, a
Giovanni, l'esperto tubista del reparto. Giovanni aveva una vocazione
particolare per noi ragazzi assunti per la prima volta in quella fabbrica alla
fine degli anni novanta. Per alcuni operai, uomini duri e coraggiosi capi tribù
dei loro produttivi reparti, noi ragazzi rappresentavamo più che altro una
nuova "gatta da pelare". Infatti, noi giovani eravamo un possibile pericolo
per il loro futuro di lavoratori. Era buffo, ma si sentivano attaccati come
capi tribù, dal nostro acne e dal nostro scimpanzoide modo di utilizzare gli
strumenti di lavoro. Così, spesso, il senso di minaccia era dimostrato
giornalmente nelle dure pratiche di lavoro in cui venivamo occupati. Io ero
stato fortunato ad incontrare Giovanni; lui si preoccupava della mia sicurezza,
prima di tutto, poi, anche dell’insegnamento del lavoro di tubista industriale.
Come giovane tubista, mi occupavo della costruzione e manutenzione degli
impianti di lubrificazione sparsi un po’ ovunque nella fabbrica. Difatti, i
rulli, le macchine pneumatiche, i forni e i vari meccanismi presenti nei
reparti avevano bisogno di un sistema idraulico funzionante a grasso, in grado
di lubrificare, per un tempo maggiore, tutte le parti esposte alle temperature
elevate. Ero stato assunto con la mansione di tubista industriale e tecnico
della lubrificazione, ma per tutti sugli impianti la nostra piccola tribù era la
squadra degli “ingrassini”. Ingrassando ingrassando, io e Giovanni in quegli
anni avemmo l'opportunità di girare gran parte degli impianti della fabbrica,
estesa su una superficie molto più grande del capoluogo jonico. Nonostante la
durezza del lavoro e l'immersione nelle innumerevoli preoccupazioni di un’età
ancora acerba, con Giovanni ero sereno, apprendevo lentamente ma impegnandomi
come non mi era mai capitato fino ad allora: quello era il mio primo lavoro, ed
ero soddisfatto di me quando intravedevo mio padre, anch'egli operaio in quella
fabbrica, intento nello spiarmi mentre lavoravamo sugli impianti. Un giorno,
però, quella serenità che avvolgeva come una coperta calda e colorata la nostra
vita di ingrassini, si sporcò all’improvviso di grasso. Quel giorno maledetto
io e Luca, un altro giovane collega giunto sul reparto assieme a noi,
aspettavamo le direttive di Giovanni sul da farsi.
“Passami le chiavi...i raccordi...il teflon!“; ed intanto io e Luca
pensavamo alla sera, alle nostre amicizie e alla possibilità di fare presto
insieme una gita in moto. Mentre parlavamo, questa volta anche assieme a
Giovanni che intanto aveva terminato il suo lavoro alla macchina da manutenere,
udimmo uno scoppio terribile e delle grida, poi vedemmo delle fiamme che si
diffondevano veloci fin sotto il capannone del reparto. In una parte sotterranea
dell’impianto, c’era un giovane operaio di una ditta appaltatrice che nell'allentare
il bocchettone di un tubo flessibile ormai vecchio, aveva preferito, come
spesso accadeva, riscaldarlo con una fiamma ossidrica in modo da facilitare
l'operazione. In quel tubo flessibile, purtroppo, c’era ancora dell’olio in
pressione che, a contatto con il calore della fiamma, fuoriuscì dal bocchettone,
si infiammò ed investì il giovane operaio. Il tubo flessibile non era stato
bonificato completamente, e Domenico, un giovane operaio ventisettenne, non
tornò più dai suoi familiari. Era il 12 maggio 1998. Dopo l'incidente, io, Luca
e Giovanni rimanemmo riversi a terra a piangere per molti, molti, interminabili
minuti. In seguito arrivò un capoturno a dirci di rialzarci e di riprendere gli
attrezzi in mano per continuare il lavoro, ma noi non reagivamo, eravamo ancora
a terra... in preda allo shock. Arrivò anche l’ambulanza, ma era già troppo
tardi.
Sono passati quasi dodici anni dalla morte di Domenico; dodici anni in cui
l’oblio, il silenzio e gli infortuni mortali nella fabbrica si sono succeduti
nell’assuefazione totale di una città e dei suoi operai che sembra credano
statisticamente ammissibile un tributo del genere pur di tenere lontani gli
spettri della disoccupazione. Anch’io, in un certo senso, sono stato in
silenzio; un silenzio però che nascondeva il bisogno di elaborare un lutto e,
forse, il senso di colpa per non aver potuto far nulla in quei tragici momenti.
In fondo, sarebbe bastato distoglierlo dal suo lavoro con una chiacchierata,
come quelle che spesso, anzi spessissimo, rallegravano gli operai al lavoro
sugli impianti. Spessissimo, ma non quella volta; e noi compagni di lavoro
siamo rimasti in silenzio per tutti questi anni.
Qualche mese fa, mentre ero in compagnia dei miei nuovi colleghi di lavoro,
i pedagogisti del Dipartimento di Scienze Pedagogiche dell'Università del
Salento, ricevetti una preoccupata telefonata da mia madre, la quale mi
informava di un incidente che aveva interessato mio zio Pasquale nella stessa
fabbrica. Purtroppo, mentre mio zio era intento a spegnere un principio di
incendio generatosi all’interno di un quadro elettrico, l’estintore, che pure
era stato revisionato da poco tempo, non aveva funzionato bene e nell’erogare
le polveri di anidride carbonica aveva violentemente scagliato sul viso la sua
parte terminale tagliandoli gran parte del labbro superiore. Cinquanta punti,
tanti ne servirono per suturare tutti gli strati del tessuto del labbro, e un
ricovero d’urgenza all’ospedale per un intervento di chirurgia plastica furono
il risultato di questo ennesimo incidente avvenuto sul posto di lavoro. Pur
mostrando un pregevole senso del dovere per la prevenzione di un incendio di
più grande entità, per una sorta di paradosso sulle norme di sicurezza, l’incidente
era avvenuto proprio a causa di un dispositivo di sicurezza mal funzionante.
Anche dopo questo incidente, l’oblio.
Oggi sono un formatore e, come spesso il professore Colazzo afferma,
essendo formatori abbiamo il dovere di riflettere sulla formazione e sui
processi che la riguardano. Un dovere perché è a partire dalle nostre
osservazioni, riflessioni, scelte, attività che possono essere analizzati i
bisogni formativi, ma anche risolti problemi importanti. Ad esempio,
riferendoci alla normativa sul delicato tema della "Sicurezza, igiene e
salute sui posti di lavoro", molti contributi potrebbero essere ancora
offerti soprattutto da settori disciplinari in cui le tematiche tecniche
vengono trattate non in modo diretto. Questa legge, evidentemente, tende a realizzare
un'organizzazione sicura, priva di rischi, salubre da un punto di vista
ambientale e, aggiungiamo noi pedagogisti, attenta ai processi formativi,
intercettando in tal senso le nozioni a noi care di atmosfera e benessere
organizzativo.
La Direttiva-quadro 89/391/CEE
del Consiglio delle Comunità Europee, del 12 giugno 1989, si prefiggeva l'obiettivo
di assicurare una migliore protezione dei lavoratori sui posti di lavoro,
tramite provvedimenti di prevenzione degli infortuni e delle malattie
professionali sul lavoro, nonché grazie all’informazione, alla consultazione, alla
partecipazione equilibrata e alla formazione dei lavoratori e dei loro
rappresentanti. Nello specifico dell'infortunistica, il datore di lavoro è
obbligato a informare i lavoratori, redigere un elenco e fornire delle
relazioni sugli infortuni sul lavoro, consultarli e permettere la loro
partecipazione nel quadro di tutte le questioni attinenti alla sicurezza e alla
sanità sul luogo di lavoro e, infine, assicurare che ogni lavoratore riceva una
sufficiente e adeguata informazione in ordine alla sicurezza e alla salute
durante l'orario di lavoro. La scrittura delle relazioni sugli infortuni avvenuti
nelle organizzazioni e la loro successiva divulgazione, accompagnata da
un'adeguata riflessione pedagogica, secondo il mio punto di vista, risulterebbe
di immensa utilità per il tema della sicurezza lavorativa. Nella realtà di
tutti i giorni, invece, gran parte delle descrizioni degli incidenti che
accadono nelle organizzazioni e i ragguagli sulla loro possibile prevenzione,
vengono lasciati in secondo piano rispetto agli obiettivi produttivi. Così, le
narrazioni legate ai tanti inconvenienti lavorativi che accadono nei reparti e
tra i banchi delle officine, si disperdono lasciando tutt'al più il posto alla
traccia di un loro flebile ricordo. È possibile, dunque, che esistano delle
differenze tra ricordo personale e memoria collettiva? Differenze che sono
prima di tutto legate ai processi di costruzione sociale di una memoria più
largamente condivisa? E soprattutto, se esistono tali differenze, queste
possono farsi dispositivo pedagogico nella lotta agli infortuni sul lavoro?
Proprio per cercare di rispondere a questi interrogativi, decisi di
intervistare i protagonisti degli incidenti avvenuti in fabbrica; sia Giovanni
che nel 1998 era con me nel momento dell'incidente mortale, sia mio zio Pasquale
che da poco tempo si era ristabilito da un brutto infortunio.
Dopo l'assemblaggio delle interviste, e dopo averle guardate e analizzate
più volte, mi sono reso conto che nel racconto di Giovanni e in quello di mio
zio Pasquale esistevano alcune considerazioni comuni. Le due narrazioni,
chiaramente scaturite da un infortunio sul lavoro, erano caratterizzate infatti
dalla riflessione sul gruppo ristretto di lavoro per il primo, e sulla tutela
offerta dai colleghi accorsi in aiuto per il secondo. Analizzando l'intervista
di Giovanni, cioè in quella fase di analisi della narrazione in cui occorre
estrarre le informazioni utili per l'interpretazione dei fatti raccontati (A.
Sormano, 1996, p. 353)[ii], si ricorre
spesso al ricordo della "nostra squadra di lavoro"; di un gruppo
ristretto inteso come un'entità distaccata dal resto del mondo della fabbrica.
Nell'intervista, Giovanni ripete più volte il termine "capannella",
metafora utilizzata per indicare una sorta di affiatato gruppo di lavoro
all'interno del quale i membri vengono costantemente protetti dai pericoli
della fabbrica, dalle tensioni che si sviluppano nei reparti, dalle condizioni
poco agevoli del lavoro. E come se il ricordo di Giovanni, così lo descrive
l'esperto tubista, ci collocasse all'interno di una "bolla comunitaria
affettiva" capace di alleviare la durezza delle giornate lavorative e di
difenderci in qualche modo dagli eventuali pericoli. Più volte ricorda le
nostre giornate di manutenzione come "delle isole di lavoro, di
tranquillità e protezione" o come delle "nicchie di serenità".
In realtà, le sensazioni evocate da quelle espressioni sono rimaste immutate
nel tempo anche per me. Ricordo che in certi reparti di lavoro, dove era molto
facile perdersi senza una precisa individuazione di punti d'orientamento, si
creava tra noi un clima di sicurezza, di scambio di informazioni, di pareri, di
pratiche, di consigli e di affetto. Giovanni era in grado di insegnarci le più
difficili tecniche di piegatura del tubo di rame e di proteggerci allo stesso
tempo. Questa "capannella" veniva idealmente costruita da noi nei
reparti da manutenere, poi, alla fine della giornata di lavoro, ognuno ne
portava i pezzi smontati nella propria cassetta degli attrezzi. Allo stesso
modo, anche immaginandoci sui reparti all'interno di una metaforica "bolla
protettiva", questa, alla fine della giornata, scoppiava per poi essere
nuovamente rinnovata l'indomani.
Veniamo ora al racconto di mio zio Pasquale. Anche nel suo caso il ricordo
si focalizza sull'intervento dei "compagni di reparto", sul pathos del momento, e su un senso di
protezione avvertito nell'ascoltare, ancora frastornato, le voci dei suoi
compagni di lavoro accorsi in suo aiuto. Molti di loro, ripete gratificato
nell'intervista, l'andranno a trovare in reparto durante il pomeriggio e nei
giorni successivi all'intervento di chirurgia plastica. A questo punto, se ci
preoccupiamo di indagare pedagogicamente il tema della "memoria
collettiva", specialmente riguardo il problema degli infortuni nel
contesto industriale, è opportuno cercare di fare emergere, nella rilevazione
delle informazioni mediante l'utilizzo delle interviste, gli episodi in cui il
ricordo individuale intercetta quello della collettività. Potremmo dire che
esiste un momento temporale in cui ciò che individualmente accade, e che
determinerà il consolidamento di una successiva traccia mnestica, è condiviso
anche con gli altri attori presenti in quella situazione. La memoria
collettiva, più che il risultato dell'esperienza dell'individuo, è il risultato
dei ricordi generati dalle interazioni di un gruppo in un determinato momento.
La memoria collettiva possiede, dunque, dei caratteri di situatezza, di
contestualità, di intersoggettività. Tornando al 12 maggio 1998, i miei ricordi
hanno certamente trovato un punto di intersecazione temporale e affettiva con
quelli dei compagni di lavoro ma, rimanendo bloccati all'interno della
"bolla protettiva" tanto cara a me e a Giovanni, col tempo si sono
arresi all'evanescenza e all'oblio. Anche per l'esperienza di mio zio Pasquale
è accaduto un simile "processo di dissolvenza mnemonica". Il suo
ricordo ha intercettato per qualche ora quello dei suoi compagni più stretti,
per questo i ricordi apparterranno per sempre all'esperienza di quella piccola
comunità ma, se resteranno anch'essi intrappolati nella bolla, alla sua esplosione
si dissolveranno sicuramente nel tempo. Occorre, a mio parere, attuare un
intervento pedagogico sul ricordo; questo deve
consolidarsi, deve sedimentarsi non soltanto in quel gruppo in cui sono
avvenute le esperienze ma, possibilmente, in tutta l'organizzazione. Capiremo
in seguito nello specifico, quanto sia importante attivare il dispositivo
pedagogico della sedimentazione del ricordo nell'organizzazione, nelle
politiche sulla sicurezza e prevenzione degli infortuni.
2. Il paradigma della memoria situata
Riflettendo sul costrutto di memoria collettiva, mi sono reso conto delle
tante attinenze esistenti con il "paradigma dell'azione situata" (situated action). Questo paradigma,
maturato all'interno della psicologia culturale vygotskijana, e dunque contrapposto
alla visione del paradigma cognitivista dell'azione e della comunicazione,
permette di considerare come il corso di ogni azione dipenda dalle circostanze
materiali e sociali in cui ha luogo (C. Zucchermaglio, 2004). Dunque, i
processi cognitivi, di comunicazione, di formazione, d’insegnamento, di
apprendimento e le pratiche lavorative sono il prodotto delle interazioni che
si strutturano in uno specifico tempo e contesto. Questo cambio paradigmatico
viene sottolineato dalla nascita del costrutto di "comunità di
pratiche", che allontana definitivamente l'idea di una pratica
individualista nei gruppi di lavoro. Per Wenger le comunità di pratiche
"sono gruppi di persone che condividono un interesse, un insieme di
problemi, una passione rispetto a una tematica e che approfondiscono la loro
conoscenza ed esperienza in quest'area mediante interazioni continue"
(Wenger, MCDermott, Snyder, 2007, p. 44). Nelle comunità di pratica si dà
risalto all'importanza dei processi di negoziazione e costruzione dei significati
condivisi, per cui le comunità si caratterizzano fondamentalmente per tre
dimensioni: un impegno reciproco, un'impresa comune, un repertorio condiviso (Wenger, 1998). La dimensione dell'impegno
reciproco, cioè del perché si è in quella situazione insieme, evidenzia
come le pratiche di un gruppo non esistano in astratto ma solo se negoziate tra
i membri di una comunità. Se non esistesse il comune impegno in un campo
tematico specifico, non si parlerebbe di comunità di pratiche ma solo di un
gruppo di amici. La dimensione dell'impresa
comune, cioè del cosa dobbiamo produrre, sottolinea la presenza degli
obiettivi comuni come esito del processo di interazione negoziale che si
sviluppa a partire dall'impegno reciproco. Dunque, un campo tematico specifico
e condiviso crea un senso di responsabilità per gli individui, l'utilizzo di
conoscenze e lo sviluppo di una pratica. La dimensione del repertorio condiviso, cioè del cosa già conosciamo, rimanda
inevitabilmente all'insieme di strumenti, idee, rappresentazioni, informazioni,
documenti, storie, linguaggi condivisi dai membri della comunità. Potremmo dire
che all'interno della dimensione del repertorio
condiviso è inevitabilmente inclusa la memoria collettiva di quella
specifica comunità di pratica. La memoria collettiva è pertanto l'insieme dei
ricordi di eventi che appartengono ad una specifica collettività; ricordi che
abbandonando la loro componente egocentrica ne mettono in evidenza una sociale
e situata. Ad esempio, memoria collettiva non è il ricordo personale di un
brevetto di successo derivante dal lavoro di un unico individuo, bensì la
memoria del riconoscimento comunitario all'attività di un collega che ha
utilizzato e finalizzato il repertorio di informazioni della comunità per un
risultato comune. Ancora, memoria collettiva non è il ricordo personale della
promozione a manager di un membro della comunità, bensì la memoria del graduale
riconoscimento comunitario di leader carismatico ad un suo membro. Per chi
scrive, il paradigma della "memoria situata" (situated memory), in assonanza con gli studi sulla cognizione
situata, mette in evidenza il carattere locale, contingente, situato e
incrementale delle tracce mnemoniche delle nostre azioni quotidiane. Se da un
lato la costruzione sociale della memoria ci suggerisce di considerare i suoi
caratteri di specificità e situatezza, dall'altro lato è vincolante
l'allontanamento dalle sue componenti nostalgiche ed individuali.
L'utilizzazione di queste prescrizioni pedagogiche, affidano alla memoria collettiva
le responsabilità di una dimensione prospettica. Il termine
"ricordare" nel linguaggio comune viene utilizzato per indicare
almeno due diverse prospettive temporali: ricordarsi cosa dobbiamo fare, cioè
quali sono i nostri piani per il futuro, o ricordarsi eventi del passato, come
ad esempio la faccia di una persona e così via (Papagno, 2003, p. 45). Il
ricordarsi del futuro è compito della memoria
prospettica e, più che la memoria
retrospettiva, e questo tipo di memoria ad avere la prevalenza nella vita
di ogni giorno. Quante volte, ad esempio, ci siamo dimenticati di fare una
chiamata ad un amico pur avendola programmata da diverso tempo? La memoria
prospettica si colloca al confine tra memoria, attenzione ed azione, ed è
interessante notare come essa sia determinata più dal contesto sociale di
riferimento che da variabili motivazionali. Infatti, le ricerche sugli anziani
hanno dimostrato che, pur possedendo una minore capacità attenzionale, essi
svolgono meglio dei giovani le loro azioni in condizioni ecologiche protettive,
cioè negli ambienti di tutti i giorni, utilizzando più adeguatamente ausili
esterni come il segnarsi le cose. Per gli anziani, accade che la riduzione
delle risorse cognitive venga bilanciata dallo sviluppo di altre strategie
compensatorie, come ad esempio un più esperto utilizzo del bagaglio
esperienziale. Per le organizzazioni, credo che valga in generale lo stesso
principio: l'età adulta di una comunità di pratiche non introduce limiti al suo
ulteriore sviluppo, infatti, possono esserci ancora prospettive nuove e
crescita, a patto che l'esperienza organizzativa venga resa capitalizzabile e
fruibile per tutti i membri. Il "sapere pedagogico" che si interroga
sulle questioni della vita organizzativa deve, inevitabilmente, occuparsi della
gestione dei processi della memoria prospettica, affinché l'età adulta di una
comunità si orienti verso l'età della saggezza, dunque, dell'intelligenza
organizzativa.
3. Fuori dalla "bolla", dentro la vita
organizzativa
Abbiamo visto come, analizzando le due
interviste sull'esperienza dell'infortunio, i focus narrativi estratti siano
rappresentati dal ricorrere all'utilizzo dei termini "capannella",
"bolla protettiva", "isola di lavoro" e del termine
"compagni di reparto". Ma l'utilizzo di queste metafore, agevolano i
processi di stratificazione della memoria collettiva o, al contrario,
favoriscono una loro dissolvenza culturale? Spesso, quando rifletto sui
processi della memoria, faccio riferimento alla metafora del giacimento d'oro.
Quando si incomincia una operazione di scavo, che proprio nel nostro caso è una
operazione di scavo psicologico, è difficile incontrare nei primi metri di
terra traccia del prezioso metallo. Continuando nell'operazione, verrà alla
luce qualche traccia del giacimento aurifero, poi, scendendo ancora più in
profondità, queste tracce saranno più consistenti e diventeranno dei nuclei più
grandi, e solo dopo aver raggiunto un'adeguata profondità si rinverrà la
riserva d'oro sedimentata nei millenni nella terra. Il giacimento del prezioso
metallo è nascosto, come un tesoro, nella profondità della terra. Se proviamo
ad utilizzare questa metafora anche per la comprensione del costrutto della
memoria collettiva, potremmo dire che esistono nella superficie della vita
organizzativa delle tracce mnestiche individuali. Analizzando più in profondità
gli aspetti latenti della vita di un'organizzazione, è possibile che queste
tracce si raccolgano dando origine a ricordi più intensi di esperienze vissute
dalla comunità. Se ancora, comprenderò le ragioni per cui quella organizzazione
è nata, vive è si proietta nel futuro, è probabile che abbia intercettato,
dissotterrandolo, il suo patrimonio più importante, vale a dire la sua memoria
collettiva. Questa memoria collettiva è fatta di storie, di maestri e
apprendisti, di eroi organizzativi, di pratiche, di simboli, di avvenimenti che
sono rimasti impressi nella mente di ognuno poiché ognuno ha partecipato alla
loro generazione. Ma pur riguardando il singolo, pur rimanendo gelosamente
custoditi nella memoria di ogni individuo, i ricordi appartengono a tutti
coloro che si trovavano insieme nel momento in cui quelle esperienze segnano in
modo indelebile quella collettività.
Memoria collettiva è prevenire gli infortuni attraverso le riflessioni
scaturite dalle narrazioni delle vittime degli stessi; è rendere, attraverso la
progettazione di interventi formativi adeguati, cosi come anche attraverso le
commemorazioni annuali (penso ad esempio a dei momenti di celebrazione
religiosa tra le famiglie delle vittime, i compagni di lavoro e i vertici
aziendali), tributo ai tanti lavoratori che sciaguratamente perdono la vita sui
posti di lavoro. Per dodici anni, i miei ricordi e quelli di Giovanni sono
rimasti intrappolati nella "bolla" che avevamo immaginato, aggrovigliati
al legname delle nostre "capannelle", naufragati sulle spiagge delle
"isole" più lontane che la nostra creatività avesse potuto
immaginare. Così, anche l'attuale infortunio di mio zio Pasquale corre il
rischio di divenire, nel tempo, una leggera e superficiale traccia di ricordo
senza avere la possibilità di depositarsi, sedimentandosi, in quel prezioso
giacimento rappresentato dalla memoria collettiva. Ma come è possibile,
specialmente nelle politiche della sicurezza, igiene e salute sul lavoro,
favorire la sedimentazione dei ricordi personali nella memoria collettiva? O
meglio, per utilizzare un termine comune nel linguaggio degli operatori delle
fabbriche, far convogliare tutti i ricordi nelle "tank" della memoria
(serbatoi per i liquidi) dell'organizzazione? Può la pedagogia dare il suo
energico contributo nella prevenzione degli infortuni sul lavoro e nella lotta
contro le "morti bianche" che, come di recente ha ricordato il
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione dell'incontro con
una delegazione dell'Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro,
rappresentano ancora una delle ferite sociali del nostro paese?[iii]
Credo, innanzitutto, che la circolazione delle informazioni e delle esperienze
sia di fondamentale importanza per la vita di una organizzazione. Non solo
quelle positive dalle quali è facile aspettarsi un pieno consenso ma,
soprattutto, da quelle negative, da quelle che generano errori, dai tentativi e
anche dalle circostanze dannose che levano momentaneamente respiro alla vita
quotidiana della comunità. Penso a Domenico, a mio zio Pasquale, ai miei
infortuni e a quelli dei miei vecchi colleghi, e penso all'importanza che
queste esperienze avrebbero potuto avere se solo fossero state utilizzate per
un fine comune: per rinvigorire la memoria collettiva e per offrire una
possibilità in più nel prevenire in futuro una loro ulteriore comparsa. Se è
vero, come hanno insistito Lave e Wenger, che l'apprendimento nelle
organizzazioni è una pratica di "partecipazione periferica
legittimata" (legitimate peripheral
partecipation) (Lave, Wenger, 2006), ai novizi che vengono affiancati agli
esperti - gli anziani depositari dei segreti dell'organizzazione - devono
essere gradualmente trasmesse non solo le competenze che riguarderanno il loro
lavoro, ma anche i valori, i simboli, i linguaggi, le regole, la memoria
collettiva. In breve, il patrimonio storico di quell'organizzazione. Gli
anziani hanno il compito di strutturare profonde interazioni attorno a quelli
che sono i problemi organizzativi da risolvere; in altre parole, devono
favorire quell'"intimità di mestiere"
essenziale per sviluppare il senso di comunanza utile per la vita
dell'organizzazione (Wenger,
MCDermott, Snyder, 2007, p. 164). Il sociologo Richard Sennet, riflettendo sull'organizzazione del moderno
laboratorio scientifico, afferma che essi sono strutturati secondo il modello
della "bottega artigiana", nel senso che sono luoghi di piccole
dimensioni, in cui le interazioni faccia a faccia favoriscono, appunto, un'intimità
nel lavoro. Inoltre, Sennet osserva come all'interno di situazioni complesse,
quali possono essere ad esempio le industrie automobilistiche, oggi si
strutturino esperienze lavorative simili a quelle laboratoriali. In questo
modo, anche nel ritmo assordante di una catena di montaggio, nascono degli
arcipelaghi di spazi intimi e riservati (Sennet, 2009, pp. 59-60). Ma siamo
proprio sicuri che questi "arcipelaghi laboratoriali" non includano
anche quelle "isole di lavoro, di tranquillità e protezione dal resto
degli impianti" che, alla maniera di un meccanismo difensivo, assieme a
Giovanni avevamo immaginato per una fuga dalla durezza del lavoro? In altri
termini, sono d'accordo con l'importanza di favorire la nascita di comunità di
pratiche in cui sia forte il senso di comunanza, ma è altrettanto importante ri-vedere il rapporto tra novizio ed
esperto alla luce delle riflessioni fatte sulla relazione che si creava tra
maestro-artigiano e apprendista all'interno delle botteghe; una relazione dalla
quale dipendeva indubbiamente l'apprendimento e l'assimilazione delle
competenze del giovane ma, soprattutto, l'eredità storica di quella comunità e
la sua proiezione nel futuro. Oggi, i lavoratori che operano nelle industrie,
nelle scuole, negli ospedali, nelle pubbliche amministrazioni sono sempre meno
motivati, ma questo calo di interesse non è da imputare al lavoro che svolgono,
bensì al modo in cui esso è strutturato. Gerarchie rigide, routine lavorativa,
atmosfere organizzative asfissianti, luoghi di lavoro sempre più
"liofilizzati" ad una sedia ed una scrivania (nel senso che il lavoro
sembra essiccarsi, perdendo la sua linfa vitale), fanno dimenticare l'idea che
il lavoro possa essere prima di tutto un laboratorio di creatività ed uno
spazio sociale. Ma affinché il lavoro recuperi nuovamente questa
"dimensione artigiana", occorre favorire la nascita e la negoziazione
di più comunitari simboli e rituali, così come occorre rivalutare il processo
di trasmissione e accumulazione delle conoscenze a livello di sapere tacito,
che è fatto di abitudini, di gesti sapienti, di indizi, informazioni e ricordi.
Ricordi che, emergendo dalla coscienza dell'individuo in direzione di quella
comunitaria, favoriscono la formazione di una memoria collettiva e di una
successiva pratica organizzativa. Per queste ragioni, nell'attuale scenario
lavorativo, globale, post-moderno, rapido, liquido, Sennet ci suggerisce che
dovremmo insistere maggiormente affinché gli anziani-esperti recuperino la
responsabilità pedagogica del maestro-artigiano, e arrivino a rendere sempre
più chiari ed espliciti quei saperi taciti interiorizzati in anni di lavoro.
Conclusioni
Quando mi sono accinto a elaborare queste riflessioni, mi sono reso conto
dell'importanza e della difficoltà di comprensione del costrutto di
"memoria collettiva", specialmente se questo è analizzato all'interno
delle comunità di pratiche, con un particolare riferimento alle politiche della
sicurezza sui luoghi di lavoro. Gli interrogativi iniziali hanno trovato in parte
risposta con la conferma di una discrepanza esistente tra ricordo individuale e
memoria collettiva. Lo snodo concettuale di questo contributo, forse, sta
proprio nella comprensione di tale processo attraverso i racconti e le
esperienze degli operai della fabbrica; un processo che rende possibile la
capitalizzazione delle esperienze personali nella vita e nella memoria di tutti
gli operatori dell'organizzazione.
Questo cammino è stato avvincente. Primo, perché ho affrontato il viaggio
assieme a Giovanni, compagno di allora e maestro di oggi, e mio zio
Pasquale a cui, al di là del
legame di famiglia, sono legato poiché entrambi, diciamo così, condividiamo
frammenti della stessa memoria collettiva. Secondo, perché questo esercizio di
riflessione e scrittura, assieme alla raccolta e all’analisi delle interviste,
ha avuto una funzione terapeutica[iv] per tutti
gli attori di questi processi. La malinconia, il disappunto, l'ira, la
nostalgia, il rimpianto sono solitamente le emozioni più associabili al lavoro
della memoria. E tutte queste emozioni, che sembravano vincolarci ed
intrappolarci all'interno di quelle "bolle protettive" ora sembrano
volgere verso una dimensione del desiderio. Pertanto, l'emozione legata ai
ricordi, qualunque essa sia, può permettersi di diventare progetto a patto che
in questo progetto si riescano a condividere gli aspetti più comunitari. La mia
scrittura autobiografica, le narrazioni di Giovanni e Pasquale hanno
"curato la nostra identità" arricchendola di elementi utili per i
progetti di vita e di lavoro che ognuno di noi, singolarmente ma sempre
collettivamente, intraprenderà. Giovanni, scavando e ri-scavando con sofferenza
nel passato di quei tragici momenti, ha raggiunto la consapevolezza di essersi
sempre preoccupato di creare attorno ai suoi giovani operai quella
"intimità di mestiere" e quella protezione che caratterizzano le vere
comunità di pratiche; ed in questo suo "sforzo artigiano", lo
ringrazio per il dono dei segreti che porterò con me nelle botteghe della vita che
frequenterò come apprendista. Mio zio Pasquale, dopo essersi rivisto nella
registrazione dell'intervista, e dopo aver provato le "emozioni e le
riflessioni dello sdoppiamento", che conferiscono una maggiore lucidità
affettiva e cognitiva nell'interpretazione degli eventi, ha raggiunto la
consapevolezza che la narrazione del suo infortunio potrà essere utile ai
novizi che negli anni andranno a lavorare nel suo reparto sotto la sua guida
artigiana. Come un tempo facevano gli artigiani di bottega, sarà compito suo
trasferire il ricordo di quell'evento ai suoi apprendisti, affinché l'episodio
sedimenti nella memoria collettiva della comunità di pratiche e non si incorri
più nella stessa problematica. Per quanto mi riguarda, ho vivo dentro di me il
ricordo più importante di quella giornata: la "memoria" di Domenico.
Note
[i] Questo articolo, prima di essere una
riflessione pedagogica, vuole essere un tributo alla memoria di Domenico Mele, giovane
vittima della ancora troppo rischiosa siderurgia italiana.
[ii] Ai fini della nostra riflessione, è
interessante notare come Andrea Sormano proponga, tra i modelli di analisi
dell'intervista, il "modello estrattivo-informazionale di intervista".
Questo modello di analisi dell'intervista, utilizza la metafora
dell'intervistatore come "estrattore" che, durante l'analisi deve
utilizzare «un agire strategico che gli consenta di giungere, lungo i suoi
cunicoli laterali, al centro della miniera: dove risiede l'informazione, la
rappresentazione mentale, la "personalità", l'atteggiamento, il
sistema di valori o cos'altro ancora ci si aspetta di estrarre con
l'intervista». É originale notare come le parole utilizzate dall'autore per
descrivere questo modello di analisi basato sul processo estrattivo dell'informazione,
presentano forti affinità con la metafora del giacimento d'oro utilizzata in
questo contributo per comprendere la differenza esistente tra traccia mnestica
e riserva mnemonica collettiva. Cfr. A. Sormano,
Modelli sociologici di intervista e
modelli linguistici di razionalità dell'attore, in C. Cipolla, A. De Lillo (a cura di), Il sociologo e le sirene. La sfida dei metodi qualitativi, Franco
Angeli, Milano, 1996.
[iii]
Il Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano, il 27/11/2009 a Palazzo del Quirinale, in occasione dell'incontro
con l'ANMIL (Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi del Lavoro), ha tenuto
un intervento sul tema della sicurezza e del benessere sui luoghi di lavoro. Il
Presidente ha sottolineato come la cultura del rendimento a tutti i costi, che
evidentemente comprende anche gli alti ed innaccettabili tributi dei sacrifici
umani, deve essere assolutamente sconfitta perché è alla base delle "morti
bianche". Il sentito intervento del Presidente Giorgio Napolitano, sotto
forma di comunicato e di video, è consultabile sul sito ufficiale della
Presidenza della Repubblica Italiana. L'intervento video è consultabile
all'indirizzo:
[iv] Duccio Demetrio, nel suo libro Raccontarsi. L'autobiografia come cura del
sé, fa una similitudine tra la scrittura autobiografica e l'oggetto
transizionale. Secondo lo psicanalista inglese Donald Winnicott, ogni qual
volta si presenta una situazione di separazione da un affetto o un momento di
ansia e di transizione, come ad esempio le fasi di transizione che segnano la
crescita di un bambino, occorrono immagini o cose concrete in grado di mitigare
le perdite affettive. I giocattoli per i bambini, come pure gli amuleti per gli
adulti, svolgono questa funzione di accompagnamento e di mitigazione
dell'ansia. Per Demetrio, esiste una differenza sostanziale tra un oggetto
transizionale materiale ed un racconto autobiografico. Quest'ultimo, nel mentre
viene scritto, dona la possibilità all'autore di rielaborare il percorso della
vita rendendolo più ricco di particolari, aiutando ad oltrepassare i momenti
difficili con maggiore maturità e conforto. Credo sia possibile estendere
questa "funzione terapeutica della narrazione" individuata da
Demetrio, anche alle interviste rilasciate da Giovanni Romano e Pasquale Leo
sul tema degli infortuni in fabbrica. [Cfr. Duccio Demetrio, Raccontarsi. L'autobiografia come cura del
sé, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996, p. 134].
Bibliografia
Cipolla C., De
Lillo A., a cura di, (1996). Il sociologo e le sirene. La sfida dei metodi qualitativi, Milano:
Franco Angeli.
Lave J., Wenger
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Sennet R., (2009).
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artigiano, Milano:
Edizioni Feltrinelli.
Wenger E.,
MCDermott R., Snyder W.M., (2007). Coltivare comunità di pratica.
Prospettive ed esperienze di gestione della conoscenza, Milano:
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Zucchermaglio C.,
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